di FRANÇOISE CASTEL, ROBERT CASTEL, ANNE LOVELL*

[in occasione del testo di Robert Castel apparso sull’ultimo numero di “aut aut” pubblichiamo un suo intervento che era uscito sul n. 179-180 del 1980, ma ancora piuttosto attuale]

1. Il mito della “de-istituzionalizzazione”

Da qualche anno a questa parte la “de-istituzionalizzazione” è divenuta tema canonico nell’interpretazione dei mutamenti della medicina mentale. Lo spostamento del centro di gravità delle pratiche psichiatriche dagli ospedali psichiatrici verso quella che negli Usa si chiama “Community”, in Francia “secteur”, in Italia “territorio” ecc., è giudicato irreversibile sia da coloro che vi intravedono il cammino obbligato della modernizzazione psichiatrica, sia da coloro che denunciano in questo processo l’infinita moltiplicazione dei poteri dei nuovi tecnici dell’anima. Nell’un caso e nell’altro, sembrerebbe andar da sé che malattia mentale, devianza, marginalità, trovino nel sociale direttamente la loro collocazione. L’analisi della recente evoluzione del modello americano mostra invece che il processo non è cosi ovvio. Gli Stati Uniti offrono oggi un osservatorio privilegiato, non tanto perché qui sia stata sperimentata – in anticipo su altri paesi[1] – l’uscita della psichiatria dalle mura dei manicomi, ma perché questo processo presenta delle modalità significativamente brutali oltre che un andamento eccezionalmente rapido. Riassumendo il senso delle analisi tentate nel corso del libro, ci si accorge che l’evoluzione degli ultimi trent’anni ha seguito in questo paese una sorta di oscillazione dialettica. Ciò che si definisce troppo globalmente come “de-istituzionalizzazione” ricopre, e dissimula in parte, almeno tre serie di processi che hanno modificato le istituzioni, le professioni e le tecniche della medicina mentale, ma non hanno distrutto né la realtà dell’istituzionalizzazione, né il ruolo delle diverse competenze professionali, né infine il ricorso decisivo e preponderante alle tecniche. Solo descrivendo questo triplice congegno si riesce a identificare, al posto di una presunta e generalizzata liberazione, una dinamica ben più complessa e articolata, le cui future implicazioni in Europa come negli Usa sembrano comportare nuove differenziazioni dell’ordine psichiatrico.

 

I. L’istituzionalizzazione rigida e codificata della malattia mentale e delle forme di devianza in genere rappresenta una soluzione tutt’altro che sorpassata. Essa diviene al contrario oggetto di correzioni che la razionalizzano e che configurano, in un certo senso, il rafforzamento stesso delle modalità segregative nella gestione della devianza. Questa tendenza è la risultante di un processo duplice: da un lato la ridefinizione più rigorosa delle funzioni e dei regolamenti dell’ospedale psichiatrico, in secondo luogo la creazione di una gamma aggiornata di istituzioni che possiamo definire “totali” in senso goffmaniano.

Primo processo. Il pathos diffuso sul presunto declino degli ospedali psichiatrici non si riferisce in ultima analisi che all’esclusione da questi luoghi di tutti coloro che già in passato vi venivano ricoverati pur non avendo nulla a che farci. In altre parole, mano a mano che si gonfiava come struttura di ricovero, l’ospedale psichiatrico tradizionale aveva finito col somigliare sempre più a quello che un tempo era l’“Hôpital Général”, l’ospedale cioè che serviva da “asilo” a una popolazione poco differenziata: vecchi senza famiglia, indigenti senza risorse, cronici per i quali la terapia non aveva più senso, o almeno la terapia dispensata in questi tipi di ospedali, ecc. Queste categorie hanno trovato posto altrove, o più spesso sono state lasciate all’abbandono. Il loro rigetto, come dicono talvolta i tecnocrati, ha “ripulito” l’ospedale psichiatrico e l’ha reso più adatto all’esercizio delle sue funzioni specifiche: in particolare il trattamento e il controllo dei comportamenti e dei soggetti che disturbano l’ordine sociale.

Secondo processo. Per mettere in atto forme di segregazione a vita non sono obbligatorie strutture gigantesche circondate da mura e da fossati. Istituzioni più leggere possono convenientemente assicurare più rapide rotazioni e assumere alcune funzioni tradizionali degli ospedali psichiatrici. Inoltre queste strutture offrono il vantaggio di rispondere anche ai problemi “sociali” sconosciuti all’epoca d’oro dell’alienismo, e divenuti oggi di fondamentale importanza. In tal modo, decine di migliaia di  “liberati”  dagli ospedali psichiatrici popolano ora istituzioni chiuse a formato ridotto, “minifosse dei serpenti”: il loro numero è in costante aumento, come nel caso dei “Centri residenziali di trattamento” dove si continua a tenere isolati i cosiddetti “bambini disturbati”.

Ma altre ancora sono le istituzioni del futuro e in primo luogo quelle meno direttamente riferite alla malattia mentale, reale o supposta. È il caso delle comunità terapeutiche per tossicomani, nelle quali si è tornati a valorizzare il rigore inflessibile degli spazi chiusi, al fine di consentire la riprogrammazione radicale della vita degli “ospiti”. Allo stesso modo, un’intera gamma di istituzioni per bambini e per adulti si colloca ambiguamente sul confine mobile tra psichiatria e giustizia. Mentre le prigioni vengono psichiatrizzate, senza peraltro divenire aperte, numerose categorie di “alienati criminali”, di “delinquenti anormali” e di “psicopatici sessuali” non sarebbero in grado di dire se sono trattati in carcere o in ospedale, e transitano spesso da un’istituzione all’altra. In ogni modo l’esperienza di queste persone non è certo quella di essere “de-istituzionalizzati”.

Dal tempo in cui prigione e manicomio si spartivano il dominio esclusivo dell’internamento, la rete delle istituzioni segregative si è allargata e differenziata e il passaggio dell’internamento si è complicato a tal punto che risulta difficile tracciarne la mappa esatta. Sarebbe dunque ingenuo, oltre che pericoloso, prendere alla lettera un certo discorso modernista che si basa unicamente sulle innovazioni e che, quando è costretto a riconoscere i residui dell’antico ordine psichiatrico, li definisce appunto come mera sopravvivenza o arcaismi. Una delle funzioni politiche dell’ideologia del cambiamento consiste proprio nel ridurre lo stato di un sistema sociale alle sue trasformazioni più spettacolari che non intaccano necessariamente le basi del sistema. Le iniziative nuove, le derive, le esperienze marginali, le forme più “avanzate” di penetrazione degli schemi di intervento medico-psicologico nel tessuto sociale si fondano ancora su una base di segregazione e di violenza. Se c’è una novità, questa non è certamente la riduzione delle forme di internamento nelle istituzioni, ma il fatto che categorie sociali più differenziate che in passato trovano ora collocazione all’interno di un reticolo ben più esteso e fluido di istituzioni. Ma questa lezione non vale solo per gli Stati Uniti.

 

II. Esiste negli Usa una letteratura abbondante e confusa sulla struttura, le forme, l’evoluzione e la crisi dello “schema medico”. Tuttavia un fatto è certo: l’esercizio della professione psichiatrica, nella sua definizione tradizionale, filtrata attraverso la formazione delle facoltà di medicina, è stata contestata in profondità negli ultimi quindici anni. Questa crisi dipende da due serie di circostanze, i cui effetti si sono potenziati nel tempo.

Innanzitutto la nascita di una psichiatria comunitaria, prevalentemente nelle zone più povere, ha condotto gli psichiatri a confrontarsi con una massa di problemi di natura sociale e politica, oltre che medica, di fronte ai quali la loro formazione li lasciava disarmati. In seguito, anche al di là della pratica nella collettività, la società americana ha investito la psichiatria di compiti che essa non è stata immediatamente in grado di assolvere con le sue risorse. I drammi aperti dalla droga, le aspirazioni della controcultura, le rivendicazioni femministe e omosessuali hanno preso in contropiede un establishment medico abituato alla gestione regolamentata del rapporto medico-paziente, in istituzioni asettizzate.

Questa situazione ha provocato reazioni differenti. Alcuni professionisti hanno tentato la messa in crisi del loro ruolo tradizionale: sia in funzione di una ideologia progressista, sia adattandosi necessariamente per sopravvivere, questi psichiatri, soprattutto nelle condizioni di lavoro dei ghetti, hanno forzato le loro pratiche verso prospettive sociali e politiche inedite, superando rapporti troppo tecnicizzati, tentando di interpretare i bisogni della popolazione più emarginata. Cosi facendo si “de-professionalizzavano”, nel senso e nella misura in cui abbandonavano progressivamente il ruolo medico tradizionale, forgiato dalle facoltà. Contemporaneamente integravano nelle loro équipe “lavoratori indigeni”, persone cioè che vivevano nel ghetto e che erano ritenute in grado di esprimere direttamente i bisogni della comunità. Ma una volta interpretati i bisogni per ciò che effettivamente erano, i principi del funzionamento strettamente medico del servizio venivano stravolti dall’iniziativa di questi collaboratori locali. Intere équipe hanno cosi messo in crisi le loro antiche certezze, innescando fughe in avanti verso l’impegno e la attività politica diretta.

Un distacco ancora più radicale dai presupposti dello “schema medico” è avvenuto ad opera dei non-professionisti. In quei territori dove la psichiatria esibiva tutta la sua incompetenza di fronte a problemi nuovi – poiché non esistevano né tradizioni, né tecniche consolidate, né istituzioni di consumata esperienza – i laymen, e cioè dei profani estranei alla professione medica, hanno accettato la sfida di improvvisare soluzioni nuove a domande emergenti: sono nate così le free-clinics per i giovani drop-out, comunità terapeutiche per tossicodipendenti, centri di sostegno (counseling) e di self-help per marginali d’ogni sorta, gruppi di incontro (encounter) diversi.

Agli inizi questi nuovi arrivati sono lungi dal considerarsi gli ausiliari disinteressati di specialisti competenti. In genere infatti essi appartengono proprio agli stessi gruppi che intendono aiutare. Criticano duramente la formazione psichiatrica, denunciandone la rigidità e la ristrettezza di vedute, il conformismo e la sostanziale impotenza a rispondere ai bisogni vitali di coloro che cercano aiuto contro la miseria e la disperazione. In tal modo si sviluppa nel corso degli anni sessanta un’ideologia apertamente anti-professionale, che sembra a un certo punto spiazzare l’egemonia medica e innescare il processo della sua dissoluzione. Ma il sopravvento di un certo numero di meccanismi correttivi consente di individuare in questo momento una controtendenza verso la “ri-professionalizzazione”.

La controffensiva dell’establishment medico, all’inizio disorientato e talvolta sollevato per il fatto di potersi sbarazzare dei problemi che non era in grado di gestire, non si è fatta attendere. Passata la fase critica l’establishment riprende il controllo sulla situazione, ispirando dei nuovi regolamenti che restringono norme e criteri di apertura delle istituzioni e di esercizio delle professioni para-mediche; l’ottenimento di sovvenzioni viene subordinato alla presenza di garanzie di serietà e competenza, di cui il medico è l’unica autorità depositaria; vengono inoltre esautorati i membri della professione troppo compromessi in attività giudicate sovversive e cosi via. Oggi si è ricomposto un più ampio consenso nella critica agli “abusi” degli anni sessanta: si ribadisce in sostanza che la psichiatria deve restare fermamente collocata nel grembo della medicina.[2]

In parte a causa di queste “pressioni” (ma anche in seguito alla loro evoluzione connessa al mutare del contesto sociale e politico alla fine degli anni sessanta), la maggior parte di coloro che si erano posti come antagonisti del sistema psichiatrico ufficiale sono tornati nei ranghi: in particolare gli “operatori indigeni” nei ghetti e i rappresentanti della contro-cultura che avevano promosso istituzioni alternative. Mentre i più ostinati e radicali venivano sconfitti ed estromessi, la maggioranza si integrava nelle équipe, in ruoli subalterni, trovando nella propria posizione un mezzo di promozione sociale. A loro volta i fondatori di free-clinics e di altri gruppi di self-help erano costretti a rinunciare, o ad acquisire le qualifiche richieste occupando un ruolo nel sistema ufficiale. La dialettica della “ri-professionalizzazione” è talmente forte da coinvolgere anche il più recente movimento dei “gruppi di incontro” e “sensibilizzazione sui rapporti umani” […]: movimento nato all’origine per iniziativa di alcuni professionisti in rotta con l’ortodossia, che avevano attaccato violentemente il valore della competenza derivante dalla formazione classica. Un gran numero di profani si era riversato in questa breccia. Ma oggi anche coloro i quali si pretendono molto critici verso l’establishment medico mettono la massima attenzione nel reclutamento e nella formazione del loro personale, si sbarazzano delle pecore nere, e si sforzano di presentare agli occhi del pubblico un’etichetta di rispettabilità e di competenza.

Questo movimento verso la “ri-professionalizzazione” non rappresenta evidentemente un ritorno puro e semplice agli equilibri precedenti. Il sistema complessivo delle professioni che ruotano attorno alla salute mentale si è trasformato qualitativamente e quantitativamente. Un nuovo mercato del lavoro si è spalancato: la crescita di questo tipo di servizi è stata la più spettacolare degli ultimi anni. Sono nate nuove qualifiche, le équipe si sono sovraccaricate di numero, i ruoli intermedi si sono moltiplicati. Dall’autorità centrale, riconosciuta quasi esclusivamente agli psichiatri, si scende via via fino ai “bassi” bisogni materiali, abbandonati a esecutori senza alcuna autonomia. Da qui un sistema complesso di collegamenti, di scambi, di trasferimento di competenze, di deleghe dei poteri e di slittamento delle funzioni. Là dove non va lo psichiatra, può penetrare il para-professionista. La flessibilità dei ruoli va di pari passo con l’allargamento del ventaglio istituzionale: più la struttura è fluida negli interventi, più posto resta per competenze inedite e per qualifiche marginali. Ma fino a prova contraria questa piramide degli usi della psichiatria resta dominata dalla professione, spesso rifiutata a parole e tuttavia oggetto di invidia per i prestigiosi poteri che continua a monopolizzare, e riprodotta da ciascuno a seconda della propria collocazione e dei propri mezzi. Poiché il sistema è riuscito fondamentalmente a neutralizzare i grandi movimenti di contestazione della fine degli anni sessanta, non si vede a partire da cosa potrebbe ora lasciarsi abbattere. Al contrario, tutto lascia intravedere che si è giunti a una vera situazione di normalizzazione: la professione regola i suoi conti con i suoi marginali, disciplina i rapporti con i satelliti, rende omogeneo il campo considerevolmente esteso all’interno del quale seguita a esercitare la sua egemonia.

 

III. La logica che sottende la trasformazione delle tecniche è omologa a quella che spiega l’evoluzione delle professioni. La prima è simmetrica alla seconda, e ne costituisce l’aspetto strumentale. In effetti allo schema classico corrisponde il modello clinico di intervento specialistico, strutturato su due livelli: esame centrato sul corpo, secondo una eziologia organica della malattia mentale; investigazione dello psichico, secondo differenti modalità psicoterapeutiche. Nei due casi lo specialista ha il monopolio della competenza e della capacità tecnica, dispone di un arsenale di strumenti, dalle medicine alla comprensione psicologica, che somministra ai pazienti in virtù del suo sapere e del suo senso clinico.

Questo modello di relazione è divenuto col tempo inservibile poiché da un lato la medicina mentale spostava i suoi ambiti di intervento, e dall’altro aveva a che fare con utenti atipici rispetto al duplice prototipo del malato di mente classico: l’alienato istituzionalizzato o il cliente portatore di una domanda “individualizzata”. Si sapeva da tempo che il modello psicoterapeutico, per ciò che esige in capacità di verbalizzazione e di introspezione, mal si adatta a una clientela popolare. Nella pratica dei ghetti, dove la domanda generalizzata e collettiva riguarda innanzitutto la soddisfazione di bisogni di sussistenza, lo schema non solo si applica male, ma va addirittura in pezzi. Anche nelle classi medie si è rafforzato il discredito dell’approccio psicoterapeutico classico, e ciò a causa dell’aspirazione (suscitata prima dalla controcultura e ripresa poi dai “gruppi di incontro”) verso un modello di crescita psichica che intende sviluppare globalmente la personalità, invece di accontentarsi di un mero riaggiustamento di funzioni. Il culto dell’hic et nunc, del sentimento, della spontaneità ecc. si oppone alle divagazioni e alle manipolazioni specialistiche. È accaduto allora che, nel contesto delle iniziative anti-professionali degli anni sessanta, il rifiuto – almeno a parole – dello strumentario psicoterapico e di tecniche affini, è divenuto dominante come opposizione a specialismi che comunque esigono una competenza tecnica. Ma anche su questo terreno le cose si sono via via decantate. A distanza di una decina d’anni, la conseguenza oggi più vistosa della critica delle tecniche sembra essere la dilatazione e la proliferazione di tecnologie dell’intervento, destinate semplicemente ad accrescere il margine di manovra di specialisti vecchi e nuovi.

Nella pratica delle “comunità”, la psichiatria non solo è sopravvissuta, ma ha messo a punto tecniche aggiornate, come la crisis intervention, psicoterapie brevi, forme sofisticate di sostegno, facenti capo a differenti figure di responsabili, ecc. Il problema è divenuto, in sostanza, l’articolazione di un nuovo rapporto della psichiatria con la popolazione, tale da consentire un’espansione verso nuovi settori sociali: interventi efficaci e rapidi, centrati sui sintomi più che sulla eziologia, capaci di modificare le condizioni dell’ambiente almeno quanto l’equilibrio “interno” della persona, economizzando sulla verbalizzazione del rapporto e sulle sue lunghe strategie, con lo scopo di smorzare i conflitti acuti. Ma questo distacco dal modello tradizionale della competenza psichiatrica diventa l’esatto contrario dell’abbandono del tecnicismo. In queste elaborate forme di intervento si rinnovano le virtù dei savoir-faire specializzati, fondati su un corpo di conoscenze i cui principi vengono trasmessi nelle scuole ed esigono un lungo tirocinio.

Una trasformazione analoga si è prodotta nelle “istituzioni alternative”. Qui sono state messe a punto nuove tecniche su quel ventaglio di problemi lasciati sguarniti dalla psichiatria tradizionale: forme di sostegno psicologico per persone in difficoltà ma che non rientravano nelle categorie nosografiche abituali; forme inedite di intervento nei casi di tentato suicidio o negli incidenti da droga o nei problemi della donna ecc. Queste innovazioni a loro volta sono state accolte dalle istituzioni ufficiali e sono andate ad arricchire il corredo di nozioni e l’equipaggiamento tecnico di ogni operatore della salute mentale.

Tuttavia è proprio nel seno di quei gruppi la cui vocazione anti-terapeutica sembrava inequivocabile che la generale tendenza verso la ri-tecnicizzazione è stata ancor più spettacolare. Attraverso il movimento del “potenziale umano”, la spontaneità è divenuta un obiettivo da perseguire, il corpo una macchina di produzione affettiva di cui bisogna saper oliare sapientemente gli ingranaggi. Qui la critica delle prerogative tecniche dell’intervento medico-psicologico sfocia alla fine in una straordinaria esplosione di tecnicismo. Se è stato Taylor per primo ad applicare i principi della razionalità tecnologica alla temporalità umana, si trattava ancora di un tecnicismo astratto, applicato in quanto tale solo all’attività strettamente produttiva dell’uomo. L’ideologia del growth, dell’espansione concertata della personalità, diviene, sotto l’apparenza di un’utopia sognante e in nome della libertà, della spontaneità e del trionfo del sentimento, un taylorismo dell’intera personalità.

Si diviene ingegneri dei propri stati d’animo, si deve fare funzionare la fabbrica del proprio corpo, produttore di sensazioni ineffabili. O, piuttosto, invece: bisogna apprendere le tecniche del piacere costruito e della libertà programmata, affidandosi a nuovi specialisti dalla barba da guru, affinché sorveglino le alchimie della nostra singolarità irripetibile. Con la “terapia per i normali” è la totalità delle dimensioni dell’esperienza umana, indipendentemente da qualsiasi riferimento al patologico, a divenire oggetto di manipolazione  tecnica.

Questa fiammata di nuove tecniche appare profondamente paradossale allorché sorge dalla volontà stessa di superare lo strumentalismo delle psicoterapie. Ma questo non è che un aspetto, e neppure il più rilevante, di un fenomeno globale. In piena espansione sono anche quelle tecniche che possono integrarsi nello schema medico più classico. Le ricerche biologiche, applicate non solo alle malattie mentali, ma rivolte in genere alle cause “obiettive “ delle anomalie di comportamenti d’ogni sorta (fattori ereditari della delinquenza, comportamenti familiari “disturbati”, disadattamento scolastico) non sono mai state cosi diffuse e rigogliose. Lo stesso vale per le ricerche farmacologiche, finanziate sia dai laboratori farmaceutici che dagli organismi pubblici, ispiratori della politica nazionale della salute mentale, come il National Institute of Mental Health. Il loro sviluppo permette al tempo stesso sia il rafforzamento dei metodi di controllo chimico nelle istituzioni, sia l’estensione del loro uso all’esterno (per esempio il litio serve a mantenere i malati curati al di fuori degli ospedali; il metadone va a neutralizzare i tossicodipendenti; le anfetamine “normalizzano” i disadattati nelle famiglie e nelle scuole, ecc.). In concorrenza con queste ricerche di ispirazione medica, esistono oggi delle forme ancora più “scientifiche” di indagine nei laboratori di psicologia sperimentale (impegnati nella modificazione del comportamento) e nei centri di ricerca collegati ai ministeri (quello ad esempio dell’esercito, senza parlare poi delle curiosità scientifiche della Cia) i quali mettono a punto le tecniche di moda nella manipolazione dei comportamenti.[3] Dieci anni fa la valutazione di questi fenomeni sarebbe stata ben diversa. Ma dopo l’oscillazione succeduta all’effervescenza degli anni sessanta, la trasformazione più significativa nel campo della politica sociale consiste proprio nel rafforzamento di indirizzi di ricerca di stampo positivista, sostenuti dall’ambizione di neutralizzare o modificare “scientificamente” i comportamenti indesiderabili.

 

In questa dinamica la “de-istituzionalizzazione” (anche questo un concetto da ridimensionare) non è che uno degli elementi in gioco. Le modificazioni e lo sviluppo della psichiatria americana dovrebbero piuttosto essere interpretati come gli effetti di una dialettica combinata di “istituzionalizzazione”, “tecnicizzazione” e “professionalizzazione”. Occorre tuttavia ribadire che la situazione degli Usa riassume con la massica chiarezza le principali linee di tendenza che si possono rintracciare in altre società psichiatriche “in via di sviluppo” in rapporto al modello americano della “società psichiatrica avanzata”. Il triplice processo che abbiamo individuato evidenzia in particolare due caratteristiche dominanti della psichiatria contemporanea: crescita quantitativa e diversificazione qualitativa delle persone che hanno a che fare con la medicina mentale, e delle pratiche che a essa si ispirano; persistenza e complementarietà di tutti i dispositivi, dai più “arcaici” ai più “moderni”.

In primo luogo la diversità delle istituzioni, degli operatori e delle tecniche consente l’estensione infinita dei soggetti interessati, tenuto conto della specificità delle “domande”, oltre che dei “problemi” di categorie di beneficiari molto eterogenee. Dal modello più oggettivamente medico, come la psicochirurgia, fino alle ultime ricette che garantiscono un supplemento d’anima a tutti coloro che provano solamente il disagio di vivere, ciascuno o quasi può trovare la sua nicchia. Alcuni vi sono spinti da condizioni sociali ineluttabili, altri la scelgono o credono di sceglierla come forma superiore della loro libertà. Per gli uni e per gli altri la risposta è già data: cioè che esista la possibilità di “trattare il problema” (quello che l’individuo vive come disagio personale, o quello di cui è portatore in quanto problema sociale “diretto”) in una istituzione specializzata, secondo tecniche adeguate, possedute da specialisti qualificati. Certamente un trattamento di questo tipo cessa di essere psichiatrico in senso stretto, nella maggior parte dei casi. Si è anche cercato di dimostrare nel nostro lavoro come questa etichetta non ricopra più l’insieme delle realizzazioni qui descritte. In una “società psichiatrica avanzata”, la psichiatria cessa di intervenire come operatore “speciale”, nel senso in cui gli alienisti del XIX secolo parlavano di medicina “speciale” e di istituzioni “speciali”. Bisogna allora adottare un altro concetto? La cosa non sembra essere di fondamentale importanza, dal momento che le definizioni di ricambio rimangono anch’esse ambigue. L’essenziale è cogliere le linee di tendenza di un processo.

La psichiatria è nata adottando ciò che con Erving Goffman si potrebbe chiamare uno schema di riparazione: cioè un complesso di interventi che, applicati su persone gravemente invalide e di numero limitato, dovevano restaurarne la normalità di funzionamento, o, in mancanza di questo, neutralizzarle con la reclusione. Con lo schema di prevenzione la psichiatria si è sentita autorizzata a ben altre ambizioni, in particolare quella di intervenire nelle condizioni ambientali in quanto funzioni decisive nel danneggiare, conservare o ripristinare la salute. Questo spostamento ha provocato l’inflazione delle tecniche e la moltiplicazione delle persone coinvolte. Ma questo espansionismo restava ancora condizionato e limitato da una norma medica che lasciava fuori del suo ambito di intervento quelle situazioni che non rientravano nella direttiva della salute e della guarigione. Con lo sviluppo di una “terapia per i normali” e più in generale di tecniche “scientifiche” di manipolazione dell’individuo e del suo ambiente (modificazione del comportamento, nuove tecnologie di gruppo), si giunge a elaborare uno schema di rafforzamento della normalità. Lo scopo a questo punto non è più quello di guarire, e neppure quello di conservare la salute: diventa quello di correggere le deviazioni e massimizzare il funzionamento dell’individuo, assimilato a modello tecnico, quindi manipolabile e insediato in un ambiente che si può scientificamente controllare e modificare.

Fine della medicina? Fine, forse, dell’egemonia del referente medico: anche il comportamentismo e le più recenti tecniche di gruppo cessano oggi, non a caso, di riferirsi al modello medico. Ma tutto questo accade solo per portare a compimento il modello operativo inaugurato dalla psichiatria: la trasformazione, in nome di un sapere, attraverso la mediazione della tecnica, sotto la responsabilità di uno specialista, dei rapporti di contrattazione che l’uomo “normale” intratteneva, sotto sua responsabilità, col suo ambiente sociale. La differenza, enorme rispetto al passato, è che ora non si ripara quelle che a torto o a ragione venivano interpretate come disfunzioni patologiche, ma si rafforza l’autorità delle norme sociali su tutti coloro che, in modi sempre più diversi e per ragioni sempre meno definite, si dimostrano suscettibili di deviare. Ancora recentemente, la maggior parte delle persone poteva nutrire la speranza statistica di non entrare nel novero dei malati di mente. Oggi, viceversa, con l’aumentata giurisdizione degli specialisti del trattamento e della manipolazione della psiche, sempre meno numerosi sono coloro che possono giurare di non avere a che fare con una qualunque tecnica di raddrizzamento della loro condotta.

 

Ma questa evoluzione non implica affatto la liquidazione delle realtà “arcaiche” in favore dell’innovazione “moderna”: le forme di intervento “molle” non hanno soppiantato le “dure”. La forza del sistema – la sua legge di funzionamento complessivo – consiste appunto nel mantenere i due estremi della catena, con un massimo di maglie intermedie. Si potrebbe cosi costruire una tipologia dei dispositivi attuali. Al polo più tradizionale e spesso più scopertamente repressivo si potrebbe collocare un quadruplo raggruppamento: l’istituzionalizzazione più forte (esempio: ospedale psichiatrico); la tecnologia medica classica (esempio: elettroshock o i farmaci); professionisti specializzati in modo tradizionale (psichiatri); utenti gravemente invalidi (psicotici e dementi). All’altro estremo della catena tutte le caratteristiche si rovesciano: istituzioni molto leggere, tecniche poco sofisticate, personale poco professionalizzato, clienti “normali”. I gruppi di “terapia per i normali” o il co-conseil esemplificano questa ultima combinazione. Ma si può notare attualmente che tutti questi servizi si incastrano l’uno nell’altro, prestandosi mutuo sostegno: può anche accadere che alcuni di essi vadano a occupare il primo posto, mentre altri si cancellano, provvisoriamente o definitivamente, senza che questo comporti uno spostamento irreversibile da un punto della catena verso l’altro. Per esempio negli Usa i “gruppi di incontro”, esplosi intorno agli anni settanta, segnano ora il passo. Al contrario gli interventi più classicamente medici tornano in auge. Progresso o regressione? Indubbiamente né l’uno né l’altra: bensì accentuazione o sparizione, in una congiuntura sociale e storica data, di elementi determinati che nell’insieme funzionano in sintonia.

 

2. Liberalità del liberalismo

Una visione d’assieme è sempre in certa misura schematica. La nostra tende a suggerire – con insistenza probabilmente eccessiva – che la tela è intessuta così finemente che i giochi sono fatti, e che tutte le iniziative, le alternative, le rivolte sono condannate a essere reintegrate in un’organizzazione globale. Nello sforzo di far risaltare le principali linee di forza di un sistema, si finisce sempre con l’accentuarne la coerenza interna, sottovalutando gli ostacoli che restano sul percorso. Senza alcun dubbio, negli ingranaggi che abbiamo descritto, persistono degli scarti: la macchina perde colpi nell’aggiustamento dei suoi pezzi diversi. Sopravvivono anche interstizi nelle zone provvisoriamente lasciate all’abbandono, aree di libertà. Permangono infine resistenze e rivolte, possibilità residue di fare strappi nella tela. […] E tuttavia il destino ambiguo delle esperienze alternative invita piuttosto a interrogarsi sulle straordinarie facoltà di assimilazione proprie della società americana.

C’è da chiedersi che cosa sia una società “liberale”. Tra le altre cose è una società nella quale le possibilità di contestazione del sistema vengono autoregolate dal sistema stesso. La medicina mentale americana ha subìto numerosi attacchi: lotte legali, che hanno reso di pubblico dominio i suoi scandali; rivolte di utenti organizzati; intrusione di pratiche e dinamiche concorrenti, prodotte dalla contro-cultura; lavoro militante ed esemplare di gruppi di intellettuali contestatori, come per esempio il “Health PAC” ecc. Queste critiche davano un tempo l’impressione di scuotere il sistema psichiatrico americano, ma – come è accaduto col Watergate sul piano politico – tutto continua come se proprio queste critiche fornissero al sistema l’occasione per provare la sua tolleranza e per meglio adattare i suoi dispositivi alla novità delle situazioni. Ci si chiede allora quale tipo di rapporto intrattengono questi meccanismi regolatori, diffusi dalla medicina mentale, con le strutture di potere proprie della società americana, prototipo delle società industriali avanzate, dette anche “liberali avanzate”.

Una critica corrente del dilagare degli apparati medico-psicologici, in quanto sistemi di regolazione della vita sociale, denuncia la collusione che esisterebbe tra psichiatria e stato. Il controllo dei settori della popolazione che pongono dei problemi, la normalizzazione delle differenze e il contenimento dei comportamenti devianti: questi e altri sarebbero tutti compiti di salvaguardia dell’ordine sociale. La medicina mentale si assumerebbe la sua parte a fianco di altri apparati “repressivi”, come la giustizia, l’amministrazione, la politica, ecc. Curare piuttosto che punire, ma per sorvegliare e conservare meglio: lo “Stato terapeutico”[4] rappresenterebbe la fase aggiornata di organizzazione dei poteri dello stato, dal momento che i dispositivi di controllo con l’etichetta medica assicurano delle funzioni di “governo” degli uomini che tradizionalmente erano gestite dagli apparati amministrativi e politici. Esempio limite di questo tipo di funzione è rappresentato in Urss dalle procedure di conversione della dissidenza in malattia mentale. L’apparato psichiatrico è qui direttamente innestato nell’organizzazione dello stato. Agenti incaricati intervengono in varie tappe del processo per strappare brutalmente il soggetto alla vita sociale: dopo di che lo trapiantano, per “trattarlo”, in strutture scopertamente coercitive, in ospedali che non sono altro che luoghi di internamento. Il ruolo di un professionista della salute mentale non è diverso, in questi casi, da quello di un agente del Kgb.

La collusione risulta allora talmente evidente da indignare quasi tutti. Le cose sono così chiare su questo punto solo perché il meccanismo che opera in Urss è rozzo, e rischia così di offrire un comodo contrasto per diffondere a buon mercato un modello di psichiatria “liberale”. La lezione più significativa che si può trarre dal modello americano riguarda proprio l’esistenza di un rapporto ben più complesso e articolato tra le pratiche promosse o ispirate dalla medicina mentale e le funzioni di conservazione dell’ordine. Altre sono le implicazioni politiche di queste pratiche, e riguardano in primo luogo i cittadini di una società liberale avanzata.

Riconoscere la diversità del modello americano non significa peraltro sostenere l’opposizione radicale rispetto a quello sovietico: la psichiatria americana continua per una larga parte a fondarsi su metodi e strutture coercitive. E non significa neppure che il modello americano sia semplicemente più” complesso ed “evoluto”, poiché anche in Urss la psichiatria è ben lungi dall’esaurirsi nel sistema d’internamento.[5] La differenza tra i due sistemi consiste piuttosto nei meccanismi di base che li collegano al potere centrale. Una caratteristica essenziale della medicina americana è relativa a personaggi e organismi che, pur non avendo alcuna funzione ufficiale, hanno giocato un ruolo preponderante. Per esempio la mutazione moderna delle tecniche d’intervento medico dipende senz’altro dal movimento di igiene mentale. Ebbene, questo movimento può essere considerato un frutto tipico del sistema americano per i suoi riformatori zelanti, per i suoi pionieri lanciati in avventure spirituali, per i moralisti che definiscono cos’è il bene per gli altri e glielo impongono; e anche per gli impresari dell’anima e i finanziatori delle buone opere, tanto generosi quanto vigili sull’utilizzo delle loro donazioni; e infine per i professionisti disinteressati, convinti  assertori della “neutralità” e dell’efficacia delle loro  tecniche. Proprio a  tutti  questi  uomini  e donne di  buona volontà si deve, in definitiva, la rete più serrata e differenziata dei dispositivi di controllo. Ma non solo a loro. Poiché non bisogna dimenticare i finanziamenti “interessati” dei grandi trust farmaceutici; i manager avveduti di quegli imperi che sono i grandi ospedali; i difensori degli interessi corporativi dell’American Medicai Association e dell’American  Psychiatric Association, e tutti quei professionisti, para-professionisti o anti-professionisti che hanno fatto della salute, mentale o generale, il loro mestiere all’insegna della libera impresa.

Il paradosso è solo apparente. In una società cosiddetta liberale, e soprattutto nella società americana, i poteri dello stato non circolano in uno spazio sociale omogeneo. Le istanze centralizzate della sorveglianza e dell’intervento non bastano ad asportare tutte le asprezze della società civile. Alveoli residuali e luoghi di apparente libertà sono risparmiati nel gioco che si crea tra diversi apparati, ugualmente incaricati della gestione della popolazione e della conservazione dell’ordine: poteri locali e centrali, nell’ambito dell’assistenza, della giustizia e dell’amministrazione pura e semplice. La complessità di questa struttura rende conto delle straordinarie capacità di innovazione della società americana, della spontanea crescita di iniziative non amministrate dal potere centrale. Ciò è possibile inoltre in quanto la sopravvivenza stessa del sistema dipende dalla moltiplicazione delle transazioni tra diversi apparati; dal loro proliferare negli interstizi delle varie giurisdizioni pubbliche, come garanzia e cerniera di un tessuto sociale esteso e differenziato: transazioni orizzontali tra “collaboratori”, di contro all’imposizione verticale di vincoli; catene di connivenza e di mutuo soccorso, che si contrappongono ai “burocrati” e mantengono viva la differenza contro i “funzionari” in quanto rappresentanti di un potere esterno; assunzione diretta dei problemi concreti, per riassorbire a livello locale i danni sociali, sorvegliare le turbolenze, circoscrivere le devianze, prima che dall’esterno intervenga la repressione apertamente gestita dagli agenti del potere. Allorché si guarda con ammirazione a queste realizzazioni “democratiche”, ci si dimentica in genere di valutare quanto siano ispirate dalla volontà di far rispettare, con le buone o con le cattive, le regole del consenso. La riuscita ottimale di questo sistema, perfettamente autoregolato, si avrebbe qualora ogni individuo interiorizzasse la responsabilità del controllo e venisse richiamato all’ordine direttamente dai suoi pari.

Beninteso questa non è che un’idea limite: larghi settori della vita sociale funzionano proprio per la repressione esercitata da agenti esterni alla collettività. Ma in un gran numero di altri settori si è fatto ricorso alla persuasione, al volontariato, alla seduzione e al ricatto affettivi, mediante varie imprese di autogestione, destinate appunto a rafforzare l’adesione ai valori della società americana e a diffonderne i conformismi. Si tratta di associazioni filantropiche, collettivi di assistenza, sostegno e mutuo soccorso, organizzazioni di consulenza morale e psicologica. Solo uno straordinario dispiegamento di norme e regole di polizia potrebbe realizzare i risultati spontaneamente prodotti dall’insieme di questi dispositivi – ricerca, sorveglianza, assistenza, intervento preventivo – fatti funzionare in nome di concezioni filantropiche e scientifiche della salute e della sicurezza del cittadino, a opera sia di autentici interpreti della maggioranza silenziosa, sia di ricercatori “obiettivi”, sia di agenti specializzati, stipendiati dall’Fbi o dalla Cia, e infine di responsabili dell’applicazione di una qualunque politica ufficiale.

 

Veramente nuova è risultata nella nostra indagine l’importanza di pratiche che, nel campo della salute mentale, non cercano appoggi nell’autorità del potere centrale. In Europa, particolarmente in Francia, la prolungata egemonia del sistema manicomiale e la stretta dipendenza dei medici dagli ospedali psichiatrici e dall’autorità amministrativa, rappresentata dai prefetti, hanno accreditato una rappresentazione dell’ordine psichiatrico vincolata alle caratteristiche istituzionali più massicce […], oltre che alla natura della psichiatria come servizio pubblico dipendente dall’autorità centrale. Le contestazioni si sono anch’esse prevalentemente sviluppate nel denunciare le istituzioni pubbliche (critica dell’“istituzione totale”) e l’arbitrio di un potere psichiatrico che, trincerandosi dietro le razionalizzazioni terapeutiche, pretendeva di dissimulare la sua autentica funzione politica e amministrativa. Si riconoscono qui i due temi principali di una critica sviluppata da una decina d’anni, una  critica  etichettata  troppo  sommariamente come “antipsichiatrica”.

I termini di questo approccio sono tutt’altro che da rifiutare anche oggi, e tuttavia essi si rivelano insufficienti per almeno due ragioni. In primo luogo il messaggio è stato per l’essenziale recepito e inglobato. Il compito che resta è portare a compimento la distruzione pratica di ciò che esso denuncia, anziché ripeterne indefessamente gli enunciati. Inoltre, una tale critica vale ormai soltanto in parte, nelle pratiche della medicina mentale, e precisamente per quella parte che è in ridimensionamento crescente. Il famigerato “ricovero coatto”, per fare un esempio, nato con la legge del 1838, emblema dell’intervento politico-amministrativo sul malato di mente comprendeva, una cinquantina d’anni fa, l’80% del volume complessivo delle pratiche, ma diventa oggi quantitativamente trascurabile in rapporto all’insieme degli atti “terapeutici”. Le critiche attuali che seguitano a farne il loro bersaglio privilegiato, rischiano di dare credito a tutto ciò che si è fatto di nuovo dopo il 1838. Se l’“arbitrio psichiatrico” continua a essere identificato esclusivamente in rapporto alla legge, quale valutazione allora si deve dare dei “servizi aperti”, delle visite domiciliari, degli interventi medico-psicanalitici nella scuola, delle perizie psichiatriche commissionate e usate dall’apparato giudiziario? Che dire poi dell’inflazione generalizzata della psicanalisi?

C’è anche di peggio. Focalizzandosi sulle funzioni repressive della psichiatria gestita dallo stato, la critica delle nuove forme d’intervento medico-psicologico finisce col mettere vini nuovi nella vecchia botte: mancando il suo obiettivo, riproduce una denuncia che ha potuto avere la sua forza altre volte, ma che ora non tocca queste nuove realtà. Alla domanda “che cosa è la politica di settore?” si risponde allora: “una suddivisione poliziesca del territorio”, imposta dall’amministrazione centrale dello stato (e pertanto siamo sempre nello stesso ordine della segregazione istituzionale). “Qual è il ruolo politico dello psicanalista?”: “quello di rappresentare il potere delle classi dominanti” (quindi collegato almeno indirettamente ai poteri dello stato). Si può ben comprendere come queste analogie zoppicanti abbiano perso d’efficacia: di sicuro non smuovono tutti coloro che attualmente sono impegnati nella messa a punto di nuove tecnologie, perché anzi costoro non fanno che vantare la purezza delle loro pratiche, giungendo anche a difenderle contro i “recuperi”. Poiché non hanno avuto un’investitura diretta ed esplicita da parte dei poteri dello Stato, si pensano come “neutri” e come tali si fanno accettare. Un’affermazione diffusa negli ambienti psicanalitici (vedi Maud Mannoni tra gli altri) è che la pratica analitica non avrebbe nulla a che spartire con la problematica socio-politica del  potere, e così sarà finché la psicanalisi si guarderà dalla tentazione (?) di entrare nelle strutture amministrative di un servizio pubblico. Ebbene, un’affermazione siffatta non viene neppure presa per ciò che è: quanto meno un’incredibile ingenuità. Mettendo da parte le polemiche con questo o con quel gruppo di nuovi specialisti, non si capisce perché non potrebbero fare lo stesso ragionamento tutti coloro che oggi in Francia danno l’ultima ripulita agli arnesi delle terapie comportamentali: e di certo lo farebbero, se non preferissero la silenziosa efficacia della ricerca ai pomposi discorsi di autocelebrazione cari agli psicanalisti. Per fare giustizia di queste incoerenze tra una pratica sociale e le sue funzioni politiche bisognerebbe elaborare articolazioni ben più esigenti di quelle che, in maniera manichea, oppongono stato e società civile, pubblico e privato. E per prima cosa bisognerebbe finirla col riflesso che cerca un poliziotto sotto ogni divano, o una cospirazione del potere dietro ogni nuova iniziativa, poiché quando poi non si trova né l’uno né l’altra, ci si abbandona ai miraggi della neutralità. Su questi punti il modello americano assume una portata pedagogica insostituibile: aiuta a liberare le linee di forza di una teoria più soddisfacente sulle moderne tecnologie di controllo e sul loro rapporto con le strutture del potere nella società.

 

Quanto agli Stati Uniti, bisognerebbe essere ancora più ciechi per non vedere. Né Doroty Dix, né Clifford Beers, né Adolfo Mayer, né Freud, attraverso i suoi discepoli americani, né Kurt Lewin, né J.B. Skinner ecc., erano o sono divenuti rappresentanti dell’apparato statuale. Tuttavia ciò che sono riusciti a fare per assicurare le condizioni di riproduzione della società americana è paragonabile all’azione e all’efficacia di coloro che erano incaricati dal Dipartimento di Stato o dal Pentagono, cui sembrerebbe ingiurioso associarli. Alla domanda “chi controlla” e “che cosa?”, è chiaro infatti che bisogna rispondere “anche coloro che non hanno come loro scopo quello di controllare”. Si possono allora identificare numerosi gruppi in azione, ispirati da interessi diversi, le cui strategie si incrociano, talora entrando in collisione, talora completandosi a vicenda.

Per esempio, la motivazione economica è ampiamente indipendente da qualunque intenzione politica di sorveglianza e di normalizzazione. La salute mentale diventa, soprattutto per gruppi determinati, un mercato che obbedisce alle regole dell’offerta e della domanda, nel regime della “libera” concorrenza. Il capitalismo ha certamente un ruolo, perché quote cospicue di denaro pubblico e privato rappresentano delle possibilità di investimento, soprattutto se l’occasione e il pretesto vengono offerti da questioni sociali riconosciute da tutti come preoccupanti e urgenti: la droga, la violenza, i tassi elevati di fallimento scolastico, ecc. Queste sovvenzioni rendono possibile la ricerca, la sperimentazione e la commercializzazione di nuovi prodotti o di nuove tecniche. Nascono nuove “vocazioni”, si creano posti di lavoro, si traggono possibilità di buoni guadagni, a partire da opportuni investimenti. E tuttavia queste motivazioni, per quanto interessate, non hanno in genere nulla a che vedere con forme di cinismo politico. In ogni modo il risultato sarà che per esempio centinaia di migliaia di bambini turbolenti saranno definiti “iperattivi”, bombardati di farmaci, controllati da solerti consiglieri. “Normalizzati”, certo, ma “da chi?”.

I filantropi e i riformatori sono poi delle persone guidate da intenzioni umanistiche; amanti dell’ordine, certamente, come il loro prossimo, ma non per questo sospettabili di far parte di una congiura politica. Si tratta di privati, spesso dei notabili di tutto rispetto, grandi borghesi, personalità religiose o capi d’impresa che hanno scoperto attraverso il sistema delle fondazioni un modo umanistico di pagare meno tasse. Agiscono di testa loro e non rendono conto delle loro azioni che davanti al tribunale delle loro coscienze. Le loro iniziative sono state fondamentali per l’ampliamento dei settori di intervento della medicina mentale: così è stato del movimento di igiene mentale. In generale la linea della filantropia non cessa di attraversare, dal XIX secolo, tutte le politiche di assistenza, di risorgere sotto spoglie diverse e ospitare, nell’interesse della borghesia, una parte cospicua della legislazione e del lavoro sociale.

Gli scienziati rigorosi, i professionisti imbevuti della neutralità delle loro tecniche, sono categorie a sé e vengono pagati talora dal governo, dalla Cia[6] o dai laboratori farmaceutici, o da istituti irreprensibilmente scientifici. Non è escluso che costoro abbiano soprattutto a cuore l’interesse della ricerca e il bene che deriverà agli uomini dalla possibilità di pianificare e di razionalizzare la loro condotta, grazie ai progressi scientifici. La lista delle loro scoperte è già impressionante, e verosimilmente a loro appartiene l’avvenire. Alla base dei più audaci tentativi di normalizzazione dei comportamenti, sta una sorta di grande utopia “scientifica”: fare del benessere individuale e collettivo il prodotto di meccanismi razionali, studiati da tecnici competenti.

In questo concerto eseguono la loro parte anche i professionisti “marginali” o certi contestatori. Aprono istituzioni alternative, lanciano nuove tecniche per prendere in contropiede l’establishment, e se alcune di queste innovazioni vengono poi integrate nel sistema dominante, non è il caso di gridare al tradimento o di denunciare il loro “recupero”: si tratta piuttosto (come insegna la sociologia religiosa in un altro contesto) di differenti fasi nello sviluppo di una pratica sociale, tappe di un processo attraverso il quale essa si fa accettare. Alcune iniziative irrompono in modo selvaggio in un campo già fortemente strutturato. Ben presto questo impatto sovversivo, legato alla congiuntura, muta – per lasciare il posto alla loro potenzialità riformista, nel quadro del sistema esistente. Cosi è stato della psicanalisi e di altre iniziative che negli Usa si possono già collocare nella fase post-psicanalitica. Queste pratiche hanno indotto trasformazioni essenziali, rimodellando ed estendendo l’insieme degli interventi specializzati, in direzione di quegli individui che pongono problemi nella società americana: o perché essi stessi si pongono dei problemi sulla propria normalità, o perché mettono in discussione la normalità dominante con i loro comportamenti.

Bisognerebbe dunque rappresentarsi l’insieme pratico che si è sviluppato a partire dalla medicina mentale come la risultante di diverse forze presenti nel campo, nessuna delle quali potrebbe a priori essere autorizzata a considerarsi fuori gioco, o a pensarsi in una “scena diversa”. Concorrenza, conflitti, scambi, reinterpretazioni che attraversano questo spazio, producono un equilibrio in movimento. È a partire da questa tela e da questa tessitura che bisogna situare il ruolo, o piuttosto i ruoli giocati dallo stato all’interno di questi dispositivi. La nostra intenzione non è certo di negare le funzioni essenziali dei poteri centrali, bensì quella di cogliere la diversità dei processi con i quali essi si impongono. Resta inteso che lo stato conserva prerogative e zone riservate in esclusiva alla sua competenza, come per esempio, tutto ciò che concerne in Usa le condizioni generali della sopravvivenza, l’espressione dell’imperialismo americano a livello della politica estera, le grandi opzioni politiche ed economiche all’interno. Ma in rapporto alla vita sociale diretta, al di fuori dei periodi di crisi aperta, lo stato centrale raramente è il protagonista creatore dal nulla del processo di regolazione, il quale, in tutti i modi, rappresenterebbe una imposizione dall’esterno sulla vita della collettività. Lo stato reinterpreta, arbitra, elimina in caso di bisogno, alleandosi con gruppi determinati (cfr. il suo ruolo per normalizzare le istituzioni alternative, in collaborazione con l’establishment psichiatrico); oppure gestisce, razionalizza, omogeneizza (cfr. il ruolo dell’amministrazione democratica negli anni sessanta per creare la psichiatria comunitaria). Oppure centralizza le informazioni, coordina le iniziative e rende possibili interventi pianificati e progetti sul lungo periodo (cfr. il suo ruolo nella messa in atto di programmi di prevenzione generalizzati sull’infanzia). Bisognerebbe d’altra parte distinguere, nella sua azione, un polo più gestionale da uno più direttamente politico. I responsabili dei ministeri e gli psichiatri hanno spesso collaborato per “amministrare” meglio le popolazioni poste sotto le rispettive giurisdizioni. Quando invece l’amministrazione federale crea d’autorità un servizio psichiatrico per la selezione degli immigrati o per l’intimidazione dei tossicomani, la sua azione mira esclusivamente alla salvaguardia dell’ordine pubblico.

Anche quando il potere centrale interviene “in materia”, raramente questo succede per imporre un sistema unico, che unifichi ex novo tutti i pezzi esistenti, o per mantenerlo per forza. Nella storia della medicina mentale americana, l’intrusione più caratterizzata in tal senso da parte del potere federale riguarda il tentativo di creare il sistema dei Community Mental Health Centers. Questo progetto, fin dagli inizi, poggiava su istituzioni comunitarie preesistenti e prevedeva una stretta collaborazione col sistema privato. Anche quando si è trattato di creare “dal nulla”, le condizioni finanziarie poste dal potere federale rispecchiano modalità tipicamente americane, che rappresentano alla perfezione questo stile di intervento a un tempo deciso e trattenuto. Si tratta del seed-money, il seme del denaro, col quale il governo federale finanzia le spese per il personale e per il funzionamento di un’istituzione, per una durata di tempo limitato, secondo un tasso di partecipazione decrescente. Anche quando l’amministrazione federale gioca un ruolo più diretto, le risorse locali devono riprendere progressivamente in carico oneri e funzionamento degli organismi pubblici, assicurarne l’indipendenza rispetto al potere centrale che li ha creati.

La migliore conferma di questa complessità d’articolazione tra potere centrale dello stato e tutte le altre istanze è data dalle recenti direttive della commissione nominata da Carter per ristrutturare la totalità dei servizi di medicina mentale. Il progetto integra e mira a far funzionare insieme tutte le istituzioni e le risorse esistenti (siano esse private o pubbliche), nate dalla volontà del potere centrale, o delle amministrazioni locali, o da organizzazioni professionali, o gruppi di notabili, o persino suscitate dalla contestazione di tutte queste autorità. Cosi viene ad essere ufficializzato, al più alto grado, un modo di organizzazione dei servizi che riconosce le loro eterogeneità e proprio su di essa si appoggia per sistematizzare e per massimizzare il loro rendimento. “Empirismo americano”, senza dubbio; ma anche riconoscimento di una dialettica essenziale, in funzione fin dalle origini della medicina mentale, e non riconducibile alla semplicistica opposizione tra sistema privato e sistema pubblico.

Il nostro contributo si è incontrato volutamente su due registri: sottolineare la complessità delle relazioni che collegano diverse posizioni in concorrenza nel campo medico-psicologico alle strutture del potere di una società “liberale”; tracciare la logica di questo gioco regolato di scambi e rafforzamenti reciproci che dall’interno costituisce questo dominio e presiede alle sue trasformazioni. Si è cosi giunti a interrogare sia l’ingenuità di coloro che fanno del potere di stato il bersaglio esclusivo della loro volontà di difendere le libertà contro tutti i totalitarismi; ma anche la pretesa di coloro che si concedono il beneficio simbolico di una collocazione fuori dalle regole di quel sistema, la cui giurisdizione contribuiscono incessantemente a estendere.

Agitare lo spauracchio di uno stato Leviatano, che estenderebbe progressivamente i suoi tentacoli sulla società civile, significa chiudere gli occhi sul progresso di crescita di un modello diverso di gestione totalitaria degli uomini nelle società “liberali”. La scelta non è tra due vie, la repressione statale mediante la psichiatria, come in Urss, o un regime di libera impresa nel quale i “tecnici dell’anima” vendono il loro servizio secondo leggi di mercato. L’alternativa non è tra la repressione e il contratto: è la diffusione stessa, da parte di una moltitudine di lavoratori privati e pubblici, di quei nuovi beni di salvezza che sono i beni della salute, a identificare progressivamente l’uomo come se lo figurano i promotori della razionalità tecnologica e della libertà programmata.

Quanto ai meccanismi che sottendono questa inflazione, bisogna saper riconoscere, per comprendere il loro funzionamento, il ruolo di tutti coloro che tirano grandi fendenti all’ordine medico e alle sue tecniche di integrazione, e che in realtà fanno questo in nome dell’ultima tecnica che essi stessi hanno messo a punto. Se infatti lo studio delle recenti trasformazioni in questo dominio prova qualcosa, è proprio in ciò che la sua attuale espansione deve alla posizione di coloro che hanno occupato, con forza crescente, le sue frontiere, spostandole sempre di più, “superando” i vecchi schemi qualificati come arcaici, coercitivi, normativi, ecc. A coloro che giudicassero pessimista quest’analisi, si può solamente rispondere che vale di più conoscere le regole di un meccanismo, piuttosto che subirlo nell’ignoranza dei suoi effetti. Sapere che nulla sfugge all’ascesa dei controlli: questa è la prima condizione per mettersi nella posizione di resistervi, al fine di preservare e di estendere gli ultimi spazi nei quali ancora non regnano né le vecchie guardie dell’ordine, né i nuovi ingegneri dell’anima.

Trattandosi soprattutto degli Stati Uniti, il nostro proposito non era quello di far vibrare le corde dell’esotismo. Anche la Francia, ci viene promesso, diventerà una società liberale avanzata. Che cosa significa? Tra l’altro una società psichiatrica avanzata. Non più una società nella quale la psichiatria si fa carico di un numero limitato di malati, reali o presunti, definiti comunque sulla base di un’esplicita opposizione tra normale e patologico; ma un’organizzazione dell’esistenza quotidiana nella quale le tecniche di manipolazione degli uomini – di cui la medicina mentale è stato il primo terreno di sviluppo e il vettore d’espansione – divengono coestensive a tutta la vita sociale. Non più dunque la nuda manifestazione di un potere che reprime direttamente le differenze sociali e politiche; ma un insieme di pressioni diffuse che le invalida, interpretandole come altrettanti sintomi da curare. Non il paese dalle “albe grigie”, nel quale il rappresentante ufficiale dell’apparato di stato sveglia il dissidente di primo mattino; ma l’universo ovattato dove veglia giorno e notte la coorte spesso ben intenzionata degli specialisti competenti. Competenti in che cosa? In manipolazione di tecniche di soggezione alla costrizione sociale.

Tale è la società americana, nella misura in cui essa è “liberale”. Misura d’altronde limitata, poiché l’esistenza di queste tecniche non ha mai impedito l’impiego di altre, più energiche. Si è visto che dei nuovi dispositivi si aggiungono spesso in misura esagerata, ma raramente eliminano drasticamente qualcosa. Tanto meglio dunque sapere, se non è già troppo tardi, che da questo liberalismo non c’è molto da guadagnare. Ci sarebbe invece molto da perdere in rapporto a quella che chiamiamo ancora, scusandoci di sembrare un po’ “arcaici”, la libertà.

 


* [Françoise Castel, Robert Castel, Anne Lovell, La société psychiatrique avancée, Grasset, Paris 1979. Di questa ricerca pubblichiamo qui, tradotte da Giovanna Gallio, le pagine finali].

[1] Notoriamente sono state esperienze inglesi (Maxwell Jones) e olandesi (Querido ad Amsterdam) a servire da modello. Il settore francese viene pure presentato nella letteratura americana come esempio di “de-istituzionalizzazione” riuscita (cfr. Martin Gittelmann, Sectorization: The Quiet Revolution in European Mental Health Care, “American Journal of Orthopsychiatry”, 1, 42, genn. 1972).

[2] Cf. Richard A. Shartz, Psycbiatry Drift away from Medicine, “American Journal of Psychiatry”, vol. 131, febbraio 1974, rappresenta bene la tendenza attualmente dominante nella professione psichiatrica.

[3] Per un bilancio recente di queste ricerche e della loro applicazione nel quadro di una politica di controllo, cfr. Vance Packard, The People Shapers, New York 1977.

[4] Nicholas Kittrie, The Right to Be Different.

[5] La psichiatria sovietica è una delle più orientate verso la prevenzione e la distribuzione dei servizi nelle vicinanze dei luoghi di abitazione degli utenti. È talmente vero questo fatto, che nel quadro della creazione della psichiatria comunitaria negli Stati Uniti, i responsabili americani al più alto livello, amministrativo e professionale, si sono recati in Urss e hanno riconosciuto la superiorità dell’organizzazione sovietica su molti punti (cfr. US Departement of Health Education and Welfare, The First US Mission on Mental Health in URSS, Washington 1969). Ne deriva che l’internamento dei dissidenti negli ospedali non può che essere una soluzione circoscritta (il che non toglie, ovviamente, il suo carattere scandaloso): per dover essere internati, i “malati”, dissidenti o no, devono essere “gravi”, dunque il numero non deve essere molto alto. L’assimilazione della dissidenza con la criminalità è più estensiva, il che conferma la preponderanza dei “campi” sugli ospedali.

[6] Nel corso di 25 anni, la Cia ha elargito più di 25 milioni di dollari attraverso fondazioni della ricerca medica privata, per mettere a punto la somministrazione di droghe o di tecniche di controllo del comportamento umano. Ma essa ha altresì testato, per la durata di undici anni, l’Lsd sui reclusi di un’istituzione invece pubblica, come l’US Public Health Service Hospital di Lexington (Kentucky) e in molte prigioni federali. “Nel 1954 la Cia sperava di utilizzare le conoscenze acquisite sull’Lsd e le droghe affini per scoprire tecniche efficaci nella induzione di turbe della memoria, di comportamenti aberranti in vista di discreditare i loro autori, turbe della condotta sessuale, un abbassamento delle soglie di vigilanza e autocontrollo e degli stati di dipendenza emotiva” (“New York Times”, 2 agosto 1977). La Cia ha ugualmente utilizzato i servizi di personalità universitarie, come il direttore del dipartimento di psichiatria e neurologia dell’Università di Tulane, incaricato di studiare i centri di dolore del cervello (ibidem).

 

Il file dell’originale è scaricabile qui

 

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