[Pubblichiamo l’articolo di Pier Aldo Rovatti, uscito su “Il Piccolo” sabato 14 giugno 2014 con il titolo: “Derrida, antimaestro e oggetto misterioso in fuga dalle certezze”]

Subito dopo la scomparsa di Jacques Derrida, presentando un fascicolo speciale di “aut aut” dedicato a lui e intitolato “Decostruzioni”, mettevo in evidenza alcune peculiarità del suo pensiero: mi soffermavo soprattutto sul fatto di come avesse rivoluzionato al tempo stesso l’idea comune di testo filosofico e lo sguardo che ne consegue. Un testo il cui movimento è un continuo debordare al di fuori di se stesso e un continuo rientrare in se stesso, e uno sguardo sdoppiato, perfino strabico, di cui – secondo Derrida – dovremmo riuscire a dotarci per poter abitare questo gioco paradossale del dentro e del fuori. Aggiungevo che tutto ciò richiede che la filosofia abbandoni ogni categorizzazione disciplinare, o almeno si ponga ogni volta in conflitto con essa, per trasformarsi in un’“arte sottile”, nella capacità di trovare la giusta “intonazione” per non tradire gli eventi: una tonalità certamente più etica che conoscitiva. Tra le righe suggerivo quanto fosse difficile e soprattutto inattuale questo gesto filosofico proposto da Derrida.

Oggi, a dieci anni di distanza, osservo che il suo insegnamento controcorrente è rimasto perlopiù lettera morta nel dibattito contemporaneo, nel quale si veleggia ben lontano da questa arte sottile e al massimo le si rivolge quell’attenzione derisoria che si riserva a un pensiero che non potrà mai essere tradotto in un sapere articolato. Certo, le opere di Derrida hanno avuto una buona circolazione editoriale, non sono mancate le monografie critiche e i commenti avveduti degli studiosi, molti convegni ne hanno celebrato il pensiero un po’ dovunque, ma ho la netta impressione che l’inattualità di Derrida sia perfino aumentata, nella misura in cui è decisamente diminuita la sintonia culturale con il suo gesto e con il suo sguardo. E poiché si trattava di una postura difficile (più difficile di quella che aveva insegnato Foucault), la cultura della semplificazione filosofica oggi dominante, quella in cui a mio parere stiamo scivolando giorno dopo giorno, ha girato la testa dall’altra parte. Derrida chi?

Derrida rappresenta un oggetto misterioso, non identificato. Sostanzialmente non ci interessa più, come se fosse fuori dalle nostre preoccupazioni teoriche il tentare di comprendere come si abita l’alterità, chi è per noi questo “altro”, come possiamo avvicinarci all’“arrivante”, evento o soggetto che sia, senza cancellarlo o senza cancellare tutto quello che esso ci può dare o “donare” per sbloccarci dalla nostra rigidità mentale. Ovvero: chiudendo gli occhi di fronte ai problemi suscitati dalla realtà in cui viviamo e non riconoscendo in Derrida uno dei pochi pensatori che potrebbe aiutarci a vederli.

Apro una parentesi per ricordare che noi di “aut aut” abbiamo fatto un bel po’ di strada accompagnati dagli scritti di Derrida, che spesso sono apparsi in anteprima nelle pagine della rivista, ma più ancora nel segno di un’“amicizia” filosofica che, dagli anni Settanta in poi, ci ha permesso di pensare meglio una realtà sociale che diventava sempre più scabrosa. E, come accade, nel momento della sua scomparsa abbiamo dolorosamente avvertito quanto fosse essenziale per il nostro lavoro di intellettuali critici, lontani da ogni accademia, l’affratellamento con lui, il sentirci in sintonia con un modo di far filosofia che noi cercavamo con fatica di guadagnare, mentre lui lo praticava con generosità, perfino con dispendio, senza mai dover ricorrere a quei toni alti che caratterizzano spesso l’insolenza della filosofia.

Un solo esempio: l’anticipazione di Politiques de l’amitié, grazie a una sintesi che Derrida ci aveva fornito, ebbe la funzione di un vero e proprio viatico filosofico che indirizzò per un buon tratto le nostre discussioni redazionali, ben al di là dei risultati che il lettore della rivista poté verificare.

Mi ricollego a questo episodio per entrare nel merito della mia “amicizia” con il pensiero di Derrida. Essa ha a che fare proprio con il rifiuto dei toni alti e con il programma di un “disarmo” della filosofia (esplicito nell’intervista del 1997 rilasciata a Maurizio Ferraris e pubblicata da Laterza “Il gusto del segreto”). L’intervistatore (che allora faceva ancora parte della pattuglia che animava “aut aut”) gli chiese una valutazione del pensiero debole e Derrida rispose che era totalmente d’accordo, alla condizione che per debolezza si intendesse “un certo modo di essere disarmati nel rapporto con l’altro”. Ma deve essere – precisava – “un momento di disarmo assoluto”, senza condizione. Riconoscere che è l’evento che ci rende “inermi” voleva dire per Derrida dotarsi dell’unica arma veramente efficace. Un “disarmo” che è percepibile ovunque nella sua scrittura (una scrittura che, a mio parere, non siamo ancora riusciti ad attraversare), per esempio nell’uso ricorrente ed essenziale della parola “forse”.

Basterebbe questa breve notazione per rendersi conto della distanza siderale che separa Derrida dalla nostra attuale urgenza di prescrizioni teoriche e di mappe sicure del pensiero. Da tale prospettiva l’inattualità di Derrida (o, almeno, di “questo” Derrida) è clamorosamente potente e si può comprendere bene perché il dibattito filosofico oggi prevalente non vi trovi alcun punto d’appoggio né alcuna affinità. Nessuna possibile “amicizia”.

Ma, tornando a quei giorni e al mio entusiasmo (il lavoro a quattro mani sulle sorti degli studi umanistici, lui qui a Trieste a parlare di pena di morte in un’aula straboccante e a rischio sicurezza…), vorrei ancora sottolineare che era del tutto chiaro a entrambi che il gesto della decostruzione e il gesto anti-metafisico del pensiero debole appartenevano a provenienze e a “giochi” non sovrapponibili, e che la cosa peggiore sarebbe stata un qualche desiderio di annessione. Proprio la differenza favoriva l’amicizia intellettuale e l’arricchimento reciproco: una tonalità condivisa (che non saprei se chiamare semplicemente etica) forniva qualcosa come un legame assai più consistente di un’alleanza esplicita. Non tutto, allora, passava ancora per il filtro spesso tossico dei media.

A pensarci, anche questa affinità intellettuale aveva a che fare con una pratica di disarmo filosofico. Derrida è stato messo ai margini della scena proprio in ragione del fatto che lui ha sempre pensato che non c’è filosofia senza amicizia e che l’amicizia è sempre una pratica di denudamento delle pretese di verità. Perché cadano le maschere degli altri occorre innanzi tutto riuscire a fare a meno della propria. Beninteso, senza la pretesa di riuscirci fino in fondo, anzi facendo apparire le rispettive impossibilità, perfino trasformandole in un legame. Ma come? Dovremmo dar retta a uno che andava predicando l’impossibilità come qualcosa di utile, anzi di essenziale? Ma per favore!

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One Response to Derrida chi?

  1. Verona Emanuele says:

    Difficile lasciare che il nostro essere si possa denudare senza risparmio quando ancora il nostro capirci l ‘entrare in noi stessi diventa una questione di alta difficolta’ ci soffermiamo troppo poco ai nostri incantesimi che quasi allarmati dalle nostre paure si confondono e lasciano spazio solo alla quotidianita’ semplificando cio’ che la realta’ cruda nelle sue interferenza faccia in modo che tutto si risolva nel piccolo mondo costruito a seconda delle propri potenzialita’ o miserie che siano Il denudarci diventa difficile quando di fronte le aspettative sono diverse e non sempre opportune Ma il terreno di un’amicizia che non sia di facile ipocrisia puo’ apparire nel momento stesso che l’arrivante e’ alla stessa tua sintonia anche tu sia filosofo scrittore poeta o chiunque tu voglia percio’ un legame si fonda nella comprensione dell’ altro nello stesso tempo in qui ti trovi o in qualsiasi situazione tu sia

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