di Pier Aldo Rovatti

Qualche giorno prima dell’attribuzione del prestigioso Oscar al film di Paolo Sorrentino, sul quotidiano “The Guardian” era uscito un articolo che avvicinava l’ascesa politica di Matteo Renzi al successo di La grande bellezza. In sostanza si notava che, mentre in Italia veniva visto con particolare favore questo nuovo presidente del Consiglio giovane, dinamico e pieno di vitalità, buona parte della critica cinematografica stigmatizzava il film come uno spaccato deludente e poco significativo del nostro Paese.

Strano, lasciava capire il giornale inglese, poiché l’Italia, proprio come ci racconta il film, non sembra affatto, oggi, un Paese dove le giovani generazioni stanno rialzando la testa mentre assomiglia piuttosto a quella società vecchia e in decadenza narrata da Sorrentino. Si capirebbero così le perplessità suscitate dal film, da attribuirsi non tanto alla sua qualità artistica quanto alla diagnosi culturale e sociale che vi viene proposta. Quanto al golden boy Renzi, siete sicuri che esso rappresenta davvero un cambiamento di immagine o almeno un segnale effettivo di cambiamento?

Non sono un critico, ho visto La grande bellezza e mi è parsa un’opera tutt’altro che mancata, anzi. Essa rappresenta un ambiente paraintellettuale romano (ma potrebbe benissimo essere milanese) nel quale la vita, tutta notturna, è ormai una festa continua, sfiancata e priva di senso: una Dolce vita dark, ha chiosato Callisto Cosulich. Aggiungerei: una vita la cui dolcezza è ormai sfumata nella nostalgia, che si regge ancora su grumi di sesso ma che ha ormai un andamento funerario. Come se pseudocultura, voglie artistiche e denaro disponibile si fossero combinati, senza scampo, in un mix mortifero che risulterebbe semplicemente agghiacciante se non fosse sorretto da alcuni sprazzi di autoironia che rendono abbastanza gradevole la evidente disfatta. Allo spirito ancora neocapitalistico della “dolce vita” felliniana si è adesso sostituito un cinico e ironico de profundis, specchio piuttosto di un capitalismo in stato di avanzato disfacimento.

È un sintomo generalizzabile? Certo, si tratta esplicitamente di una descrizione di nicchia che riguarda una particella della società italiana che si alimenta di illusioni culturali e privilegi di ceto che sembrerebbero ormai fuori gioco, inesorabilmente malati. Ma è proprio così? Se ripercorriamo il lungo, interminabile e forse non terminato ventennio berlusconiano, il quale ha prodotto effetti culturali ad ampio raggio (e non limitati a una microsocietà che gira se se stessa), vengono molti dubbi. Occorrerebbe essere convinti che è ormai cosa del passato, qualcosa che ci siamo lasciati definitivamente alle spalle, quella pervasiva e microfisica “cultura televisiva” che è via via diventata il valore di massa dominante.

Il nostro è un Paese dall’immiserimento crescente e la crisi ha di sicuro decapitato parecchie illusioni. Ma, se la festa – ipotizzando che ci sia stata – adesso è finita, e lo sappiamo bene, è comunque opportuno chiedersi, se non proprio quali sogni, almeno quali immagini abbiamo tuttora di una vita migliore. Temo che faremmo spiacevoli scoperte: linguaggio, desideri, ideali di vita o semplicemente senso da attribuire alle nostre esistenze una volta riscattate dalla povertà, probabilmente verrebbero a costituire un pacchetto non così diverso da quello che crediamo di avere lasciato definitivamente per strada.

Le cronache quotidiane e i comportamenti del Palazzo confermano a oltranza questo dubbio. Il “giovane” Renzi, al quale non possiamo non dare credito, è davvero un personaggio così estraneo alla cultura televisiva? E i sogni nel cassetto di noi comuni cittadini parlano davvero un altro linguaggio?

Ho annotato un paio di battute di Jep Gambardella, il protagonista del film di Sorrentino (interpretato da un eccezionale Toni Servillo): “Sono belli i nostri ‘trenini’, i più belli di tutta Roma, perché non portano da nessuna parte”. (I “trenini”, cioè quel ballo a serpente, sguaiato e di gruppo.) “È solo un[ trucco.” E anche i funerali sono un trucco, perché bisogna sapere che “a un funerale si va in scena”. Come dovunque. “Blablabla…”

[apparso su “Il Piccolo”, 8 marzo 2014]

3 Responses to Sorrentino e il golden boy della politica

  1. ciro migliaccio says:

    Negli anni ’70 il buon Lolli cantava:”Ormai siamo tutti morti e non ce ne siamo neanche accorti”. Negli anni ’70, appunto, figuriamoci adesso, siamo degli zombie.

  2. Sono precisamente gli aspetti graditi dall’autore di questo pezzo che mi hanno infastidita al punto che quasi me ne sarebbe andata – cosa che non faccio mai! (Con scuse per il mio italiano…)

    Basta guardare la foto illustrando l’articolo per capire quel che rimprovero a questo film: il personaggio di Jeb (nome probabilmente ispirato da “Dallas”)vestito tutto digiallo, seduto davanti ad un opera di arte, ecco quel che i critici americani hanno descritto come ‘una bellissima panorama di Roma’!

    L’autore di questa critica sembra pensare che sia piacevole contemplare i’trenini’. A me sembra il colmo della ‘self satisfaction’, con la quale gli artisti, sia della Roma antica che del rinascimento, (scusa, Fellini),non avrebbero voluto essere associati. Infatti, il film americano che ebbe l’Oscar per i costumi, ‘Gatsby’ sembra un cugino di questa ‘Grande Bellezza’…..

  3. Paolo Leoncini says:

    caro Rovatti, in una battuta cio’ che manca nel film e’ proprio la bellezza: altre civilta’, proprio nella loro decadenza, hanno saputo produrre bellezze artistiche e opere culturali. La nostra decadenza italica e’ desolatamente priva di ogni lascito degno di essere notato. Forse siamo gia’ morti, e siamo tenuti in vita come Nazione solo perche’ non usa piu’ almeno in occidente, invadere con le armi, ma con l’economia. Un secolo fa avremmo gia’ fatto la fine degli austro-ungarici.

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